martedì 24 marzo 2009

Secondo la Corte di giustizia Ue, sono le donne a discriminare gli uomini

Come già ho accennato in un precedente post, il dibattito sull'età pensionabile delle dipendenti pubbliche è viziato da una lunga serie di equivoci. Fra questi equivoci però ce n'è uno nato per ragioni abbastanza comprensibili: un'informazione è stata, diciamo così, travisata e rovesciata di segno perché appariva contraria a qualsiasi logica.

La Corte di giustizia europea. La necessità di elevare l'età della pensione femminile deriva, come si sa, da una sentenza della Corte di giustizia Ue. I giudici di Lussemburgo hanno decretato che il nostro sistema previdenziale è "discriminatorio". Cioè discrimina i sessi. Leggendo questa notizia, tutti in Italia hanno pensato che la Corte stesse censurando una discriminazione ai danni delle lavoratrici. Invece è l'opposto. La sentenza interviene per proteggere gli uomini: sono i dipendenti pubblici maschi ad essere discriminati.

La commissione di Brunetta. Il testo del pronunciamento europeo in verità non è così esplicito: la sentenza parla soltanto di "un regime discriminatorio contrario all'art. 141 del trattato della Comunità europea". Ma che l'interpretazione giusta sia quella di cui sopra lo si evince da un altro testo: il rapporto della commissione creata dal ministro Brunetta per studiare la parificazione dell'età pensionabile. In questo documento si spiega chiaramente che stiamo parlando di "disparità di trattamento ai danni degli uomini". E si aggiunge addirittura: "allo stato attuale, un dipendente pubblico di sesso maschile potrebbe adire il giudice nazionale per ottenere la concessione della pensione di vecchiaia a 60 anni, invocando la norma che prevede tale facoltà per le donne".

Quello che non si dice. Se così stanno le cose, allora tutta la discussione in corso sull'età pensionabile parte dalla rimozione di una premessa fondamentale: la riforma che si sta andando a fare ha come obiettivo il peggioramento delle condizioni lavorativo-previdenziali per le dipendenti pubbliche, perché questo di fatto ci chiede l'Europa. Parlare di "equiparazione" e di una riforma per "i diritti delle donne" penalizzate nelle loro prospettive professionali è del tutto fuorviante.
Il che non esclude che una riforma sia effettivamente necessaria. Ma un dibattito fondato sulle premesse sbagliate conduce con ogni probabilità alla soluzione sbagliata.

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