Fra le tante misure di legge che Brunetta aveva presentato ai sindacati nelle scorse settimane, ce n'era una che aveva provocato le sentite rimostranze dei sindacati.
In base alla riforma di Brunetta (quando sarà approvata), un dipendente inquisito per un reato penale potrà essere licenziato dalla sua amministrazione anche prima che sia arrivata la sentenza definitiva della magistratura. E' un principio su cui sono più o meno tutti d'accordo (anche se qualche resistenza ancora c'è, si pensi a cosa è successo nei mesi scorsi con il contratto delle agenzie fiscali). Del resto il primo ad aver proposto questa modifica normativa era stato l'allora ministro Luigi Nicolais durante la precedente legislatura. La regola attuale, per cui il procedimento disciplinare viene sospeso in attesa che si concluda quello penale, è stata fino a oggi una benedizione per tanti criminali veri (su tre milioni e mezzo di dipendenti pubblici, qualche disonesto inevitabilmente c'è). La giustizia ordinaria ha tempi lunghi, e nel frattempo quella disciplinare va in prescrizione. Così è successo che funzionari condannati per corruzione, o insegnanti condannati per molestie sessuali agli alunni, abbiano conservato il posto di lavoro e lo stipendio.
Fin qui dunque nessuna grande polemica. Ma nei documenti presentati da Brunetta ai sindacati si ipotizzava anche un'altra norma. Che diceva più o meno così: se alla fine dell'iter penale il dipendente inquisito viene assolto, questo non comporta necessariamente il suo reintegro sul posto di lavoro. E' qui che Cgil, Cisl e Uil sono insorti. La parola "reintegro" ha fatto scattare il riflesso condizionato, in particolare, della Cgil: questa sarebbe - dicono i sindacalisti - una violazione dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, che impedisce il licenziamento di un lavoratore dipendente senza giusta causa.
Ma è proprio così? Io direi di no. Se un imputato viene assolto, significa che non ci sono elementi sufficienti per mandarlo in galera, ma questo non prova necessariamente la mancanza di una giusta causa di licenziamento. Certo, se vengo accusato di aver intascato una tangente e il giudice sentenzia che "il fatto non sussiste", cioè che non ho preso una lira, allora ho tutto il diritto di essere reintegrato al mio posto e anche di essere risarcito per il danno subito. Ma se il giudice, pur riconoscendo che la tangente l'ho intascata, mi assolve per prescrizione?
E' solo un esempio, la casistica può essere infinita. Si può essere assolti "perché il fatto non costituisce reato", ma magari quel fatto costituisce giusta causa di licenziamento.
Insomma, bisogna distinguere caso per caso. Quando arriva la sentenza definitiva, l'amministrazione ha il dovere di valutare - seguendo le regole del procedimento disciplinare - se il licenziamento va effettivamente confermato oppure no. D'altra parte, non è che un dipendente può essere licenziato soltanto se ha commesso un reato. La giusta causa di licenziamento può consistere anche in una violazione del contratto, un grave errore commesso sul lavoro, una serie di assenze ingiustificate.
Cgil Cisl e Uil hanno avanzato tante altre obiezioni alle riforme di Brunetta, tutte abbastanza sensate. Questa invece sembrava un po' debole. Forse proprio per questo è l'unica obiezione che il ministro ha raccolto: nel testo della legge arrivato in Consiglio dei ministri la norma sul reintegro non c'era più.
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