Facciamo due conti. Il decreto Tremonti ha indicato le risorse per i prossimi aumenti di stipendio: 2 miliardi 240 milioni di euro per pagare i contratti dello Stato, più quello che serve per garantire la stessa percentuale di rivalutazione negli enti locali, cioè 1 miliardo 660 milioni. Totale: 3 miliardi e 900 milioni di spesa lorda per tutto il pubblico impiego. (Una cifra che basta a coprire solo la metà dell'inflazione, e quindi giudicata insufficiente dai sindacati; ma non è questo il punto).
Il costo lordo dei nuovi contratti però non è la spesa reale che lo Stato deve affrontare: una parte dei soldi che escono, rientrano nelle casse pubbliche sotto forma di tasse e contributi. Quindi quello che conta è la spesa netta. Che vale 1 miliardo 984 milioni di euro.
Contemporaneamente il decreto prevede anche una serie di risparmi sui costi del personale: il taglio ai premi di produttività, le trattenute sulla malattia, la sospensione degli scatti di anzianità per militari e professori universitari, i vincoli alle assunzioni. Tutte queste misure dovrebbero portare una riduzione di spesa netta pari a 1 miliardo 874 milioni di euro. Praticamente la stessa cifra che serve per i contratti.
Morale: gli aumenti di stipendio ai dipendenti pubblici saranno pagati con i soldi dei dipendenti pubblici. E siccome una grossa fetta dei risparmi viene dalla sforbiciata ai fondi di amministrazione, si può dire che il governo ha scelto di incrementare (poco) il salario fisso a scapito del salario variabile. Si tolgono i soldi destinati a premiare i più bravi e si redistribuiscono a pioggia fra tutti i dipendenti.
Bisogna dare ragione a Silvio Berlusconi: in questo inizio di legislatura il suo governo ha davvero adottato una politica di sinistra. Anzi comunista.
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