lunedì 26 maggio 2008

Meritocrazia nel pubblico e nel privato

La fedeltà al superiore conta più dei risultati ottenuti. Un sistema di valutazione dei dirigenti praticamente non esiste.
L'assunzione arriva grazie alle relazioni familiari o personali, la carriera dipende da quanto si è disposti ad eseguire gli ordini senza discutere, soltanto nel 20% dei casi il licenziamento colpisce chi non ha saputo raggiungere gli obiettivi assegnati.
Stiamo parlando della pubblica amministrazione? No. Per una volta sotto accusa è l'impresa privata.
Un'interessante studio condotto dalla Fondazione Debenedetti è stato riassunto ieri in un ottimo articolo di Cristiana Casadei e Gianni Dragoni pubblicato sul Sole 24 ore. Ne esce un ritratto avvilente delle aziende italiane, che si dimostrano incentrate sul "modello-fedeltà" molto più che sul "modello-risultati".

Gli industriali italiani danno continuamente lezioni di competitività alla nostra burocrazia, e non fanno mai passare cinque minuti senza aver pronunciato la parola "meritocrazia". Poi si scopre che nelle loro imprese il merito, il talento, la competenza sono qualità viste con diffidenza, o quantomeno poste in secondo piano rispetto alla disponibilità ad ubbidire. Come osserva Andrea Guerra, amministratore delegato di Luxottica: "Troppe medie aziende non sono esposte alla concorrenza e spesso, dopo un periodo di grande imprenditorialità, si sono andate a cercare una nicchia, il luogo protetto. A queste imprese che cosa importa di cambiare l'organizzazione?"

Il clientelismo, il parassitismo, il corporativismo, le colpe che tutti rimproveriamo alla pubblica amministrazione, sono in realtà le colonne su cui si regge l'intera società. Un giovane laureato che ha dei numeri può solo cercare fortuna all'estero, altrimenti deve accontentarsi di un lavoretto part time in un call center (come racconta magnificamente il film Tutta la vita davanti di Carlo Virzì).

Si dirà: le strutture pubbliche usano i soldi dei contribuenti, invece le imprese private gesticono risorse proprie e possono fare quello che vogliono. E' vero, ma fino a un certo punto. Innanzitutto, le società quotate in Borsa hanno una responsabilità nei confronti di tutti gli azionisti, cioè decine di migliaia di persone. Inoltre le inefficienze delle aziende italiane vengono pagate dall'intero paese. Se la nostra economia rallenta, è anche perché la nostra industria non regge la concorrenza internazionale, e sopravvive riparandosi dietro la protezione della politica e dei favori di Stato.

Prima di lamentarsi dei costi della burocrazia, forse gli imprenditori dovrebbero cominciare a cercare la competitività dentro le loro imprese.

Nessun commento: